Senti il rombo del cannone

Mi occupo da molti anni di oralità popolare e in ispecie di canto e di memoria contadina e operaia di carattere politico e sociale. Sembra un interesso lontano, ma in realtà non appare come un tema anacronistico in questo tempo dominato da guerre insensate, da orrori fondamentalisti e sovranisti.

Tra i vari libri che ho scritto su questo argomento insieme ad Alberto Lovatto e Franco Castelli, su Costantino Nigra e il canto epico-lirico, la canzone di monda e il canto operaio, mi fermerei qui su quello più vicino all’oggi, che riguarda il canto popolare durante la guerra 1915-1918 (Castelli, Jona, Lovatto, Senti il rombo del cannone. Grande Guerra e canto popolare, Neripozza, 2018).

L’impresa di tracciare le vicende nel canto della Grande Guerra non è stata un’impresa da poco, per la complessità e la eterogeneità dei canti e lo stato della ricerca in materia che è stato prevalentemente settoriale e locale, o viziato da ingombranti preconcetti ideologici. Valga per tutte lo studio più noto e di ampie proporzioni di Cesare Caravaglios che nel 1930 pubblicava I canti delle trincee, contributo al folklore di guerra, in cui venivano totalmente censurati i canti che non rientrassero nella sua visione della guerra, che era quella di un soldato eroico, fedele e motivato che cantava per liberarsi dalla sofferenza e dalla malinconia, che era privo di ogni debolezza e possedeva “tutte le maschie gioie del sentirsi forte dinnanzi al nemico, fortunato, agguerrito e preparato a tutte le insidie e a tutte le viltà”. Si trattava di un’interpretazione consolatoria e patriottica, viziata per di più dall’ideologia fascista, anche se c’era stato durante la Grande Guerra un canto patriottico, ma era stato un canto, prevalentemente d’autore, imposto e circoscritto, e non frutto della memoria popolare ben più ampia e complessa e contradditoria. A questo riguardo va ricordato che, a differenza delle guerre precedenti e a quella ancor più devastante che scoppierà venti anni dopo, il canto ha avuto una presenza forte, costante, nella vita del soldato al fronte e nelle retrovie negli anni 1915-1918.

Sono necessarie a questo riguardo alcune precisazioni di carattere generale utili a individuare i caratteri di questo canto. L’Italia di quegli anni era prevalentemente un paese contadino e quello che combatté quella guerra fu in tutta prevalenza (gli arruolati furono circa 6 milioni) un esercito di contadini, che ne pagarono il prezzo più alto tra i seicentomila morti, il milione e mezzo di feriti, seicentomila prigionieri. Fu un esercito mandato a morire in nome di una patria che essi ignoravano o in cui non si riconoscevano, in una guerra voluta dalla quasi totalità degli scrittori e degli intellettuali e imposta da una minoranza politica, rumorosa e aggressiva, rovesciando da un giorno all’altro le alleanze internazionali, in una sorta di colpo di stato a parlamento chiuso e contrario. Il sentimento popolare invece fu in prevalenza quello della riluttanza, del rifiuto, della passiva accettazione della sua fatalità e soprattutto del lamento. Questa guerra poi fu totalmente diversa da ogni guerra del passato, perché fu dominata dalla tecnologia, cannoni a lunga gittata, gas letali, carri armati, aeroplani, che annullava ogni individualità e che si combatté per anni, monotona e ripetitiva nelle trincee, tra il fango, il gelo, la pioggia, la neve, i pidocchi, i bombardamenti, gli assalti alla baionetta e una montagna di morti insepolti nella cosiddetta “terra di nessuno”. Fu una guerra di immense masse di soldati che vivevano sopraffatti dalle aggressioni uditive del continuo rombo del cannone e da quelle olfattive dell’insopportabile odore della putrefazione dei cadaveri. Questo conflitto poi, con la sua durata e la presenza di una massa di contadini illetterati fu combattuto da un esercito costruito non su base regionale ma nazionale, il che confuse o cancellò i dialetti e unificò per la prima volta linguisticamente l’Italia, creando, in soldati, costretti alla scrittura e a un codice di comunicazione comune, una diffusa alfabetizzazione in un nuovo italiano, quello popolare. La produzione di corrispondenza fu in quegli anni impressionante: si calcola che nei tre anni e mezzo di guerra siano stati movimentati in Italia circa 4 miliardi di lettere e cartoline postali, mentre avvenne un’ampia fioritura di diari, memorie e riflessioni personali su quella devastante esperienza.

Ora il Canzoniere di questa guerra e lo straordinario archivio di memorie e di storie che ne seguì fu affidato alla tradizione orale che affondava nella dolente memoria familiare di milioni di italiani. Si trattò di una memoria non condivisa e pacificata da cui sorsero due modi di vedere quella guerra e di interpretare il suo canzoniere: quello ufficiale, patriottico, nazionalista, rielaborato e monumentalizzato nel ventennio fascista, e quello del secondo dopoguerra, contestativo e antagonista espresso da una cultura altra di segno oppositivo. Ora è possibile, e noi a questo ci siamo attenuti, fare qualcosa di diverso, considerando criticamente entrambi questi approcci e avviando una lettura di quell’evento più articolata e multidisciplinare nelle sue dimensioni antropologiche e culturale,  considerando quella guerra come un grande evento scardinatore e generatore, che con la sua spaventosa liturgia di sangue, aveva spalancato le porte alla modernità e alla società di massa contemporanea, accomunando in una sorte comune nelle trincee, ricchi e poveri, acculturati e analfabeti, proletari e borghesi.

Se ci addentriamo ora nelle forme e nei generi di quei canti, appare, sul piano melodico e letterario, una mancanza di originalità a favore di una varietà di forme tradizionali e contemporanee che trascorrevano dalla canzone epico-narrativa al canto monostrofico, dalla canzone di cantastorie a quella napoletana, sino alla canzonetta dell’industria culturale del tempo. Queste forme musicali e letterarie, furono calate nella condizione ambientale particolare in cui il soldato viveva e riflessero il suo essere sradicato dalla vita familiare, sottoposto ad una disciplina gerarchica ferrea, in condizioni di vita difficilissime e sovente disumane, con il rischio quotidiano della morte. In questo contesto non poteva manifestarsi in tutta la sua ampiezza il pensiero popolare dominante che pur appariva, espresso in modo indiretto o tangenziale, seminascosto e talvolta palese accanto a quello ufficiale e conformista. Delle sue forme vale la pena dare qualche esemplificazione, per vedere come esse si traducevano nel contesto eccezionale della guerra. Ad esempio il topos della ragazza che vestiva i panni guerriera, vivo nel canto narrativo e nella fondamentale raccolta che ne fece Costantino Nigra alla fine dell’Ottocento, è presente, trasformato e attualizzato, in un noto canto della Grande Guerra: La si taglia i suoi biondi capelli/la si veste da militar/e la monta sul cavallo/e sul Piave se ne va. Un’operazione analoga avviene trasformando nello stesso modo La lionetta (che diventa la Violetta) e Il testamento del Capitano, tutti largamente cantati durante la Grande Guerra e presenti nelle ballate raccolte dal Nigra. La struttura testuale e melodica del canto dei cantastorie, cantori girovaghi delle piazze e dei cortili dell’Ottocento, diventa un racconto cantato e attualizzato; ciò avviene ad esempio nel notissimo canto sull’anarchico Sante Caserio (Il sedici d’agosto sul far della mattina) che diventa una canta sulla cattura e la morte di Cesare Battiste (Il quattordici giugno sul monte Corto stava). Così passando al canto monostrofico, sulle arie popolari di Il sor capanna, del Bombacè, o di Petrolini, fiorisce un consistente e mobile repertorio di strofette che scandiscono molti eventi e stati d’animo del soldato in guerra, ad esempio a centinaia si cantavano sull’aria del Sor capanna, le strofette critiche attorno al generale Cadorna, si veda tra le tante: Il general Cadorna ha fatto un gran dispetto/ ha chiamato il novecento che fa ancor pipì nel letto. Quanto alle melodie della canzone napoletana, la loro presenza nella Grande Guerra è imponente, basti ricordare uno dei canti popolari più duri e diffusi durante la guerra, Fuoco e mitragliatrici, ( Fuoco e mitragliatrici/si sente il cannone che spara/ per conquistar la trincea Savoia si va) che è sull’aria di una famosa canzone napoletana del 1913 (Sona chitarra, di Libero Bovio e Ernesto Curtis).                                                                 

L’elemento formulaico poi, dove il codice sovrasta l’individuale, dato tipico dell’espressività di tradizione popolare è largamente presente nel canto di guerra; ad esempio il modulo epistolare Mamma ti scrivo, si traduce nel  corpo vivente del soldato che diventa il tessuto stesso del canto (La pelle delle mie ossa sarà la carta/il sangue delle mie vene sarà l’inchiostro); oppure Cara mamma ti vertisco/che a casa non vengo più/noi in Austria anderemo/ dov’è il macello della vera gioventù; ma qui appare un altro topos dei canti di guerra  quello della parola  macello, a cui si potrebbe aggiungere quello della parola imboscato e  disertore, il primo oggetto di dileggio e contestazione e di contradditorie considerazioni il secondo. Anche la maledizione sarà un tema largamente presente, valga per tutte la ben nota O Gorizia tu sia maledetta/per ogni cuore che sente coscienza, mentre non vanno dimenticate le simbologie del canto erotico-licenzioso. Si veda il canta la bicicletta come sinonimo del sesso femminile: Morosa mia la bicicletta/tienila stretta per carità.

C’è poi un altro percorso e contenuto non secondario, quello del canto critico o elogiativo sull’appartenenza ad una determinata arma e alla superiorità della propria rispetto a quella degli altri commilitoni; così fiorirono canti sugli alpini, sui bersaglieri, sugli arditi, sugli artiglieri, sui fanti, e così via.

I canti della guerra non sono dunque per nulla assimilabili allo slogan “canta che ti passa” diffuso dal servizio di propaganda dell’esercito o da superficiali e interessati folkloristi del passato, ma riflettono un ampio ventaglio di stati d’animo, valori, giudizi e reazioni rappresentativi del sentire popolare e ciò che è rimasto in quella  memoria,  per chi è andato a ricercarla e a studiarla non è stato il canto patriottico, ma piuttosto quello della sofferenza, del rimpianto per la perduta vita familiare, un canto di rifiuto e contestazione e soprattutto di lamento per quell’immensa, inutile  come carneficina di poveri cristi.

 

Emilio Jona